Il tumbler mi va stretto.
La mia bocca vuole gustare l’effetto
di un sorso che disseta a gola piena
e non un’impalpabile sensazione aliena.
Il tumbler è come un fosso.
Non ci si può tuffare,
ci si può fare male.
È antipatico nel tatto,
troppo facile da prendere,
troppo inutile da vendere.
È troppo stretto per distendersi
e anche la mano deve arrendersi
a una morsa piccola,
non può esprimersi
e deve reprimersi
senza godere del piacere di avvolgersi
ad una presa comoda.
Il tumbler è una bibita nata male.
Se poi ci metti ghiaccio, non fai che peggiorare.
È un approccio demenziale
per chi lo offre e per chi lo prende.
Non lascia soddisfatto
e nemmeno sorprende.
Un bel bicchiere grande è quel che serve,
nemmeno le riserve lo mettono in vetrina.
Nemmeno per il vino che stagiona di cantina,
nemmeno per il latte che gradisce una scodella
e nemmeno per la birra che si serve in campanella.
Così, come la Svizzera che viene attraversata
da un valico un po’ grigio, con ai lati le montagne,
anche il tumbler e altri posti dove spesso devo andare,
non son fatti per amare.
Bisogna utilizzare flutti aperti, spazi più deserti
per dar modo ai liquidi di correre,
di gioire, decantare e poi svenire
dentro un mantice di gola,
di ugola assetata e non disidratata,
fin troppo affezionata al bicchiere più capiente.
A quello che, alla fine, soddisfa più la gente.
agostino guarino ©